domenica 10 dicembre 2023

Housing in Italia, dalle case popolari all'edilizia sociale privata 1903-2015

Sergio Stenti 

Sommario

6.   Prefazione          Michelangelo Russo 

10. Presentazione    Vieri Quilici

12. Introduzione

13. Una casa in periferia

14. Politiche abitative, finanziamenti, gestori e utenti

20. Società di Mutuo Soccorso, Villaggi industriali, Quartieri aziendali

30. Società cooperative di abitazione

36. Quartieri municipali, quartieri pubblici e sobborghi

49. Politiche INA-Casa, Cep e Gescal 

59. Quartieri Iacp, demanio pubblico e decentramento

69. Social Housing

72. Quartieri del Novecento:

74. Piemonte; 91. Lombardia; 151.Trentino Alto Adige; 154. Veneto, Friuli Venezia Giulia 171. Liguria; 177.Emilia Romagna; 190.Toscana; 203. Umbria ; 206. Marche; 208. Lazio; 245. Molise; 247. Campania; 266.Puglia; 268. Basilicata; 272. Calabria; 273. Sicilia; 284. Sardegna

290. Bibliografia

(Stralcio dal testo)  

Prefazione : Michelangelo Russo

Il Movimento Moderno si è misurato con continuità sul tema della casa, in particolare nella sua dimensione collettiva. La sperimentazione progettuale della modernità in architettura e urbanistica è stata decisamente orientata verso la questione dell’alloggio popolare e delle residenze pubbliche come campo sperimentale di innovazione esplorato, in discontinuità con il passato, con una mirata ricerca teorica e operativa sui concetti di industrializzazione, di razionalità e di Existenz minimum, messi alla prova nella costruzione delle Siedlungen, sia nelle città tedesche che in Europa a partire dagli anni ’20, configurando un complessivo progetto di città pubblica come carattere edificante della città moderna e di una nuova società urbanizzata. Una sperimentazione che ha costituito l’asse portante delle politiche urbane e di costruzione della casa nell’Europa del Novecento. 

Lo sviluppo delle teorie e delle pratiche di progetto della residenza come tipologia alla base della città moderna ha, di fatto, avuto il compito di dare risposta alle domande più pressanti provenienti da una società in forte mutamento economico e culturale, protesa a costruire espansivi processi territorializzati di produzione industriale, regolando gli effetti di un crescente indotto e di una trasformazione estesa e profonda in termini di movimenti demografici, di politiche di inurbamento, di ridefinizione delle geografie insediative e sociali delle città. Il principio di crescita e di espansione che ha caratterizzato la mutazione urbana nel Novecento, ha mostrato connotati differenti prima e dopo gli eventi bellici, e si è materializzato nella costruzione dei grandi quartieri di edilizia pubblica in Italia, in particolare nel secondo dopoguerra, dalla Legge Fanfani del ’49 e dall’esperienza Ina Casa in poi. Questa espansione ha prodotto nuove forme di polarizzazione del territorio, indirizzate verso la costruzione di nuclei esterni ai centri consolidati e la produzione intensiva di edilizia pubblica che hanno attestato l’alterità centro/periferia, con riflessi insediativi, sociali e culturali di grande rilevanza per il Paese. Infatti, la formazione di una periferia dilagante e pulviscolare, ha rappresentato in Italia la cifra di insediamenti realizzati con logiche settoriali, quartieri monofunzionali destinati esclusivamente a categorie a basso reddito, lontani dal centro, mal serviti dal trasporto urbano, con scarse dotazioni territoriali, di spazio pubblico e di servizi. Logiche espansive prive di relazioni urbane, che avrebbero sortito un impatto molto forte sul disagio degli abitanti delle aree di edilizia residenziale pubblica e sulla relativa identificazione come “città fuori dalla città”, periferia, congerie di aree marginali prive di identità e di qualità. La formazione della periferia, dunque, ha costituito il progressivo allontanarsi da tutte le condizioni urbane di centralità, identità, appartenenza e socialità, caratteristiche salienti della città storica e consolidata. La periferia ha costituito così, nella realtà e nell’immaginario collettivo, la lacerante soluzione di continuità che rappresenta ancora oggi lo stigma dei grandi sobborghi popolari che costellano le aree metropolitane e che hanno costituito di fatto le espansioni delle grandi città italiane: aree dove la marginalità urbana e il degrado sociale sono stati lentamente metabolizzati da processi di stratificazione sociale ed economica, consentendo a queste realtà di essere inglobate nel corpo della città come parti storicizzate, consolidate, “dure”, cioè difficili da modificare. Si tratta di una questione ben presente nella consapevolezza collettiva, nella costruzione di una domanda sociale di “spazio abitabile” che è il campo di prova dove si gioca il futuro delle comunità, degli abitanti e dei city users della città contemporanea. Una condizione che si è progressivamente stabilizzata e stratificata in una città non più periferica come potenzialità di sviluppo abitativo e urbano – reclamato da istituzioni di governo del territorio e dalle comunità insediate – determinante per riequilibrare deficitari livelli di welfare in quartieri che rappresentano nuove importanti risorse per migliorare la qualità della vita in ambiti urbanizzati, soprattutto nei territori delle grandi metropoli, che non hanno alcuna possibile prospettiva di espansione residua. La metamorfosi della periferia in città storicizzata rappresenta un processo in fieri che cambia radicalmente il segno delle attuali politiche urbane e il senso del progetto di architettura, e riorienta le logiche di intervento sulle aree più disagiate della costellazione della residenza pubblica: è un tema cruciale che tiene in sospeso la vita di intere comunità che chiedono spazi più abitabili, nuove connessioni con reti urbane, rinnovato spazio pubblico, attrezzature e servizi. Si tratta di quartieri che sono “città esistente”, cioè ambiti urbani consolidati che reclamano trasformazioni e adeguamenti da affrontare e realizzare con approccio rigenerativo, lavorando cioè sulle condizioni del tempo presente, con sostanziali ricadute sulle economie e sugli assetti sociali. La riqualificazione è creazione di rinnovato spazio pubblico, nuova mobilità e trasporto collettivo, attrezzature e servizi, in una logica di welfare diffuso e capillare, cura e manutenzione delle strutture esistenti, con un progetto di adeguamento a tecnologie più sostenibili ed ecocompatibili che richiede un volano necessariamente pubblico. Un tema al centro delle politiche pubbliche per la casa che negli ultimi anni hanno espresso alcuni segnali di consapevolezza in questa direzione, come nel recente bando per il Programma Innovativo Nazionale sulla Qualità dell’Abitare (PINQuA), finanziato dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza con 2,8 miliardi, che ha mostrato l’obiettivo di ridurre il degrado delle periferie,  rendere più efficiente dal punto di vista energetico l’edilizia residenziale pubblica e realizzare interventi di rigenerazione urbana per migliorare la qualità della vita delle persone. Ma soprattutto, la città pubblica è un tema che non può essere affrontato senza una profonda consapevolezza politica di quanto la riduzione delle diseguaglianze sociali e delle dissimetrie spaziali – in termini di qualità del sistema pubblico e delle dotazioni territoriali, anche oltre la garanzia delle soglie minime di standard urbanistici – sia oggi fondamento di democrazia e di sviluppo, di compatibilità sociale e ambientale. Una questione da affrontare con competenza tecnica e con profonda cultura del progetto, capace di interpretare ed evidenziare le radici storiche e architettoniche di realizzazioni spesso di autore, che rappresentano valori patrimoniali per la riconfigurazione di un paesaggio umano oltre che urbano. Proprio in questa direzione, il prezioso volume di Sergio Stenti sviluppa un quadro di riferimento di grande utilità, con capacità di sintesi, ricchezza e dettaglio di informazioni, ma soprattutto con la competenza di un progettista che legge i nessi tra spazio e società, ricostruendo un’agile e dettagliata storia della residenza pubblica in Italia dal Novecento ai primi anni duemila. Una ricerca che Stenti, architetto progettista e docente di spessore culturale e disciplinare, sviluppa da tempo con originalità e capacità di approfondimento. Le sue ricerche sulla residenza pubblica hanno dato contenuto a molte delle esperienze progettuali che ha svolto, a studi e scritti che hanno focalizzato la straordinaria vicenda della città pubblica a Napoli e in Campania. 

Una ricostruzione che viene estesa dall’Autore all’intero territorio nazionale, con una cronologia utile a capire l’evoluzione del fenomeno urbano, e con una specifica attenzione a mettere in tensione politiche e provvedimenti legislativi con le realizzazioni paradigmatiche di esempi organizzati per regioni. Il taglio critico di Stenti pone in risalto le qualità progettuali degli interventi, le potenzialità e i limiti di ogni realizzazione, inquadrati un una visione di insieme. Si tratta di un contributo molto originale alla costruzione della città contemporanea per lo sforzo critico di sistemazione teorica e storica che evidenzia le potenzialità di spazi di trasformazione e di progetto entro le maglie urbane oggetto di studio. La rassegna delle architetture e dei quartieri illustrati nel libro, rappresentano infatti un rigoroso riferimento alla pratica di modificazione possibile di queste parti di città, a partire dal riconoscimento dalla permanenza dei valori architettonici e urbani, intesi come base ineludibile per riflettere criticamente sull’esperienza dell’edilizia pubblica. Lo studio di Stenti è fondamento di un progetto rigenerativo della città e dei quartieri di housing collettivo, estremamente attuale per affrontare la transizione ecologica e tecnologica in termini di equità sociale: il progetto dello spazio, se sostenuto da conoscenza critica della storia e da principi strategici per costruire il futuro, è efficace nel produrre spazi adeguati a garantire equità sociale e urbana attraverso una rinnovata e ineludibile attenzione per la qualità dell’architettura e della città.

Presentazione: Vieri Quilici

La questione del Social Housing, campo di ricerca che recentemente ha assorbito quello centrato sull’edilizia popolare, non ha potuto godere, almeno fino alla metà del secolo scorso, dell’apporto di importanti studi storici e del sostegno di una pubblicistica di alto livello. Tale difetto ha così comportato una serie di altre analisi deficitarie e inspiegabilmente parziali. Si pensi, tanto per sottolinearne alcune, a fondamentali carenze storiografiche, che vanno dalla pianificazione delle città italiane in rapporto al processo unitario nazionale, agli sviluppi dell’architettura urbano-centrica maturati in epoca moderna.

È, pertanto, un tuo esclusivo merito aver tentato una ricostruzione sintetica di tale processo. Dalle politiche abitative d’epoca storica, alle prime forme di organizzazione delle Società di Mutuo Soccorso; dai quartieri dell’Istituto Case Popolari, alla formazione dei Sobborghi; dalla Ricostruzione, con le seguenti successive esperienze dell’INA-Casa, Cep e Gescal, per giungere ai quartieri Iacp e alla Legge Casa, alle politiche dei Comuni e infine, autonomamente, delle Cooperative.

È proprio su quest’ultimo tratto del processo che vorrei soffermarmi. Nel tema da te trattato con tanta competenza sull’Housing in generale, si riconnettono molte delle mie vicende personali di giovane architetto “impegnato” - una volta si sarebbe detto “militante” - nel campo della Coope- razione. Potrei continuare elencandole. Ma preferisco limitarmi alla prima di quelle esperienze, che tu citi nella tua importante pubblicazione: il quartiere sorto nella zona di Foro Boario a Ferrara, tra il 1967 e il 1970. Tutto cominciò quando andavano gli anni che precedettero il ’68, ben diversi da quelli che lo seguirono, per presunzione di pensiero e rigidezza aprioristica delle scelte. Stare al di qua o al di là della linea di confine, senza mezzi termini, questo sarebbe diventato l’ordine delle cose, fino alla pratica della violenza ……. Erano gli anni che seguirono per una durata non lunga, ma sufficiente per instaurare un clima di generale tolleranza dei comportamenti. Essi segnarono, con l’avvio dei magnifici Anni ’60, il definitivo superamento del doloroso Dopoguerra. La società civile ne era stata positivamente contagiata. E pro- gettare acquisiva il sapore della continuità tra ideazione del progetto e la sua messa in opera, della contiguità tra pensiero e pratica. Questa era l’aria che si respirava e che ancora oggi viene celebrata come la condizione che rese possibile una sorta di processo evolutivo degli abitanti di quel quartiere: la formazione di una Comunità in grado di durare per tutti i cinquant’anni seguiti fino a oggi.

Una domanda che allora non ci si può non fare è questa: cosa occorre perché si crei una Comunità?Una Forma che ne favorisca lo sviluppo? O, meglio, una conformazione che evochi l’esistenza di un Cuore, di uno spazio centrale, ovvero di un sistema di elementi edilizi in cui riconoscersi?Escluderei la forma in quanto tale, mentre sicuramente indicherei la spazialità dell’insieme, tale da rendersi riconoscibile, per carattere e fisionomia. Come accade con le persone, perché si crei tra di loro una sorta di simpatia.

Non è facile privilegiare un motivo particolare che abbia facilitato quel compito, specie tenendo conto che già la dimensione umana di quell’esperienza ne sia stata favorevole. Cerco ora, quindi, di ricordare con maggiore determinazione quali fossero le caratteristiche del progetto nella sua transizione dal disegno al manufatto, quando, composto da pieni (i volumi delle abitazioni) e da vuoti (gli interstizi tra i volumi), figure mediane che segnano il passaggio dal progetto alla sua realizzazione, fu offerto all’organizzazione produttiva.

Non c’è dubbio allora che su tutto la cosa più importante fu la Partecipazione che accompagnò tutta la fase della progettazione e della costruzione, che non è solo quella dei singoli collaboratori all’impresa comune, ma è quella che si realizza con la sintesi dei diversi compiti affidati alle strutture e ai loro ruoli. Faccio riferimento qui a quanto nel caso specifico fondamentale fu la dirigenza della cooperazione affidata a un raro suo rappresentante, che seppe rappresentare al meglio l’istanza di autonomia politico-culturale del suo compito.

Una casa in periferia

Avere una casa è un istinto ancestrale che ci caratterizza come umanità e la sua mancanza inevitabilmente affligge la vita delle persone così come la mancanza di un lavoro remunerato. Eppure la nostra Costituzione non considera la casa un diritto ma solo un principio generale, un principio che attiene alla dignità umana e un obbligo morale delle istituzioni repubblicane che nel Novecento è stato poco onorato.

È noto che la casa è il luogo del privato, dove si conserva il nostro passato, i nostri oggetti e molto altro ancora. Mettere insieme case, formando rioni o quartieri, ha costituito in passato, l’espressione di un modo di fare città, di creare un tessuto di relazioni, che spesso è diventato una comunità fondata sul lavoro. Nel Novecento questo modo di abitare è durato fin verso gli anni Settanta, poi si è pian piano sbriciolato a causa di molti cambiamenti tra cui un cambio di cultura marcato da un crescente ed eccessivo individualismo. Il senso di comunità è rimasto più a lungo nei quartieri pubblici che in quelli privati, ma comunque nel secondo Novecento, ha cominciato anch’esso a frantumarsi, ha perso di centralità, e l’aspirazione al riscatto sociale degli abitanti ha perso credito e si è indebolita.

La differenza sociale tra chi ha e chi non ha, che si esprimeva anche nella differenza visiva tra dimora e casa, si è trasformata nella marcata differenza città/periferia, nella separazione tra luoghi urbani, strade signorili, recinti urbani, e luoghi emarginati nei quali è scomparso quell’intreccio sociale vivifico tra meno abbienti e abbienti che ha caratterizzato la città fin quasi gli inizi del Novecento.

La forma della città, indirizzata dai sistemi politici coevi, ha considerato in quello capitalistico il suolo come una eredità, una risorsa passata dalla antica città pubblica alla città privata, una rendita di posizione che ha prodotto guadagni privati a ridosso delle infrastrutture pubbliche. Il suolo poi è stato contrattato e diviso in aree intoccabili centrali e aree per ceti poveri in periferia, dove con molto ritardo è stato riconosciuto il welfare pubblico.

Il Novecento è indubbiamente il secolo della casa pubblica, sovvenzionata più o meno dallo Stato: una casa per tutti ma non a tutti, nel senso che l’obiettivo sociale, quel dovere morale di cui parla la Costituzione e che ha orientato le scelte pubbliche, ha realizzato in un secolo troppe poche case  attuando una politica che, a differenza di quella europea, ha privilegiato la casa di proprietà rispetto a quella in affitto.

La casa pubblica ha praticato diversi modelli edilizi e di impianto, ma il suo carattere principale è stato quello di sperimentare nuove soluzioni, in cerca di miglioramenti abitativi che sono durati buona parte del secolo scorso e che poi si sono indeboliti per politiche nuove, per cambiamento sociale e per un eccessivo soggettivismo dei progettisti che non si sono fermati a migliorare il già fatto, ma hanno invece trascurato lo scopo sociale della casa popolare.

A partire dagli anni Settanta è cambiato il comportamento degli abitanti e la qualità dell’abitare collettivo. Le case popolari, case essenziali, di poco costo, prodotto di un necessario servizio sociale, hanno perso in socialità e mancano di ornamento e di carattere, ad esclusione forse di quelle cooperative.

Le case popolari non sono, infatti, case per persone ma per categorie socio-economiche dove gli abitanti non fanno esperienza né di costruzione né di architettura.

Credo che sia molto utile cercare di raccontare la storia delle case operaie, delle case cooperative e delle case pubbliche; è una storia di un settore dell’architettura che andrebbe meglio approfondita e più divulgata.

La casa pubblica è iniziata nel primo Novecento come riconoscimento di una esigenza collettiva, una esigenza che, come diceva Samoani, ha valore come complesso, molto diversa dalle case individuali dove a prevalere sono le esigenze soggettive.

Nel periodo giolittiano e poi in quello fascista questa caratterizzazione collettiva in qualche modo è stata rispettata perché corrispondeva a categorie sociali ritenute valide, ma appena dopo la Ricostruzione del dopoguerra, la dimensione collettiva ha iniziato a frantumarsi: i ceti meno abbienti hanno espresso più richieste di case e servizi e un migliore rapporto tra quartiere e centro città che l’edilizia pubblica non ha saputo dare. L’ideologia dello sviluppo e l’aumento del benessere hanno spostato i ceti meno abbienti verso i ceti medio bassi con un conseguente cambiamento di aspettative e di comportamenti, e una fuoriuscita dalle categorie sociali stratificate e stabili, verso un insieme differenziato di individui interessati alla integrazione nella vita urbana. Lo Stato non è riuscito a cambiare il modo di fare edilizia pubblica, non ha fatto inchieste sociali e approfondito conoscenze sul tipo di abitanti e sul loro invecchiamento e, salvo eccezioni, i progetti non si sono adeguati alla eterogeneità degli inquilini. Poi nel 1998 l’edilizia pubblica di fatto è cessata per mancanza di finanziamenti.

In un secolo di vita l’edilizia popolare ha attraversato tre sistemi politici: liberale, fascista e democratico e dopo un secolo la casa per gli “umili” è diventata simile alla casa borghese con ambienti ben distribuiti e bassa densità territoriale, solo con meno servizi e trasporti e più lontana dal centro.

Ma non c’è dubbio che i risultati, sebbene insufficienti, sono stati decisamente superiori a quelli dell’edilizia privata, per abitabilità e razionalità degli alloggi. Tra gli abitanti dei quartieri popolari nessuno oggi si lamenta dell’alloggio ma tutti mettono l’accento sulla mancanza di collegamenti, di manutenzione, di sostegno sociale attivo, di commercio e sulla presenza negativa di illegalità, esprimendo però desideri di integrazione urbana. Ma i tre punti focali sul miglioramento dei quartieri sembrano concentrarsi sulla mobilità urbana, sulla presenza di assistenza sociale, sulla cura degli spazi pubblici e sulla manutenzione degli edifici. I progressi compiuti nel Novecento nella qualità delle abitazioni per i meno abbienti sono stati significativi così come la progressione del welfare, dell’istruzione, e del reddito, mentre la qualità dello sviluppo urbano in periferia è stata troppo trascurata e i suoi abitanti “non vogliono più stare ai margini”. 

Dalle case popolari all’edilizia sociale privata 1903-2015

Introduzione 

Nella nostra storiografia manca uno studio sulle case popolari del Novecento, mentre abbondano invece molti studi sul secondo novecento, parziali e locali che non restituiscono un quadro esauriente del ventesimo secolo. L’ultimo libro che restituisce una visione abbastanza ampia sugli interventi di edilizia pubblica del Novecento europeo e italiano è Hosting in Europa, un lavoro di gruppo scritto 45 anni fa, una ricerca pionieristica sui quartieri e la città.  

Nel corso del Novecento lo Stato ha affidato la gestione delle case popolari a enti statali e parastatali che sono cambiati spesso a seconda del corrispondente periodo politico . 

Lo Stato e i governi hanno avuto un comportamento arretrato e distorto rispetto alle riforme sociali provenienti dall’Europa, e solo dal dopoguerra i governi hanno consolidato le protezioni pubbliche come pensioni, lavoro, sanità e assistenza, e sviluppato poi dagli anni ’70 investimenti per servizi sociali ma senza un parallelo sviluppo della gestione e della efficienza. 

L’abitazione sociale è stata molto trascurata perché i governi del Novecento si sono impegnati poco e male e senza attenzione agli abitanti alloggiati. 

esistesse”, diventa un homeless. Le case pubbliche, quasi sempre realizzate senza una visione urbanistica e non dotate di un referente ministeriale proprio, oppure un centro studi, che potesse censire quantità e qualità del realizzato, sono state una fondamentale risorsa sociale per il paese per lo meno dalla nascita nel 1903 alla legge casa del 1971.  

Mentre, dopo il 1971 e fino al 1998, con la scomparsa di fatto delle case popolari, molti interventi sono stati affascinati dalla “grande dimensione “, realizzando interventi che hanno creato più problemi sociali di quanti ne abbiano risolti, e dimenticando soprattutto che gli abitanti erano e sono i veri protagonisti delle case pubbliche.  

Con la legge casa del 1971, il governo di centro sinistra provò a modificare la politica per le case pubbliche, anche in risposta ai movimenti politici del ’68, e si illuse di poter trasformare le case pubbliche quasi in un servizio sociale. La legge liberalizzò progetti e approvazioni, rifondò lo Iacp, approvò una specie di cogestione con gli abitanti che non venne applicata. Le nuove regole prevedevano che le assegnazioni favorissero le famiglie povere e numerose ma non furono considerate le conseguenze della disuguaglianza culturale dei nuovi abitanti rispetto alle regole fino ad allora praticate. Maggiori punteggi furono dati alle famiglie povere e numerose rispetto ad altri richiedenti e si crearono molte disparità con un risultato sociale assai negativo. 

In sintesi nel novecento i governi hanno praticato quattro politiche diverse per le case pubbliche. Una politica liberale, che non prevedeva interventi statali, ma solo qualche detassazione dalle imposte; poi una politica fascista, che ha spezzettato gli interventi statali e parastatali in diverse tipologie  di case pubbliche e gestito le assegnazioni con discriminazione e forte controllo politico; successivamente si è praticata nel dopoguerra una politica democratica che ha dato a pagamento le case ai lavoratori dipendenti realizzando il miglior periodo intervento del Novecento. 

Infine, negli anni ’80, il centro sinistra ha praticato una politica democratico-sociale che ha privilegiato famiglie bisognose, costruito molti servizi sociali, ma non ha fatto assistenza e governance, realizzando il peggiore periodo del Novecento. 

Salvo il multiforme periodo fascista, il disinteresse dello Stato è stato un atteggiamento continuo cosi come la scadente gestione degli enti che, soprattutto negli anni ’80, unita ad una incultura dei nuovi alloggiati, non si è opposta al formarsi di situazioni delinquenziali che hanno modificato circa una quindicina di quartieri pubblici in luoghi malfamati e invivibili. 

Infine nel 2008 è stato creato il Social Hosting, una iniziativa privata e poco pubblica diretta ai ceti medio bassi che, pur realizzando interessanti complessi edilizi, ha costruito troppo pochi alloggi, circa 9000 in 15 anni, quasi tutti al Nord e con affitti medio alti, che non hanno rappresentato una alternativa alle case pubbliche.

Sul piano dell’architettura e dei linguaggi gli interventi hanno oscillato tra sperimentazione e rivisitazione della tradizione italiana. In breve nel periodo liberale l’attenzione si è concentrata sul miglioramento edilizio e tecnologico degli edifici a blocco, disegnati con un semplice linguaggio tradizionale  ed inoltre sono state sperimentate differenti conformazioni tipologiche, blocchi chiusi o aperti, palazzine, villini e case a schiera , con edifici modanati spesso da semplici decori ottocenteschi. 

Nel periodo fascista si sono intrecciate conformazioni sperimentali, scelte stilistiche tradizionali e innovative. Dopo un iniziale interesse per il sobborgo giardino , sono stati disegnati quartieri a blocco con decori in stile cui è seguita una diffusa sperimentazione edilizia fatta di linguaggi monumentali e novecenteschi  insieme poi ad interventi di un razionalismo semplificato .

Nel dopoguerra (1945-1970) il leggero organicismo dell’Ina Casa ha caratterizzato i quartieri di periferia con conformazioni miste, stecche, palazzine e torri, alle quali si sono aggiunti pochi interventi sperimentali, rari interventi di grande dimensione e qualche edificio prefabbricato.

Infine nell’ultimo periodo (1971-1990) pochi interventi di grande dimensione hanno caratterizzano in negativo un decennio di edilizia popolare . Nello stesso periodo si riscontrano svariate conformazioni: edifici con attenzione ai contesti, interventi “normali” composti da corti, torri, stecche, unità edilizie autonome  ed ancora qualche sperimentazione avanzata sia per impianto che per linguaggio .     

Purtroppo la cultura dello Stato ha continuato a sottovalutare le periferie e i suoi abitanti, non riuscendo a farsi carico di programmi di miglioramento della vita dei quartieri. E’ un disinteresse confermato anche dall’esito confuso del piano europeo PinQua /Pnrr che, tra l’altro, aveva previsto interventi di riqualificazione urbana e di recupero abitativo per circa 11.150 alloggi, oggi diventati abbastanza improbabili. . 

Riguardare oggi gli interventi Ina Casa (1949-1963) sembra incredibile ma, per un concorso di situazioni, quei quartieri sono diventati anche delle comunità basate sul lavoro che resistono al cambio delle generazioni.

Riflettendo sulla situazione attuale mi sembra che la separazione tra la città dei poveri  e la città dei ricchi, come descritta da B. Secchi , è destinata a peggiorare. E tra gli obbiettivi possibili mi sembrano indispensabili due interventi di miglioramento delle case pubbliche. Il primo riguarda la manutenzione e il miglioramento dei contesti della vita dei quartieri. Il secondo riguarda la costruzione di nuove case senza occupare suolo libero. 

(Stralci dalle foto, capitoli da pag. 14 a pag. 69)

Villaggio operaio Panzano, Monfalcone,1920, 

Villaggio industriale Dalmine, Bergamo,1924

Villaggio industriale Piaggio, Pontedera,1934-80foto P. Guerriero) 

Company town, case per lavoratori, Torviscosa,Udine, 1938

Villaggio Rosignano Solvay, Livorno,case per impiegati,1940(foto I. Saiko)

Villaggio ANIC, Ravenna,1957

Villaggio SNIA VISCOSA, Torino,1924

Villaggio operaio Lanificio A. Rossi,Schio, Vicenza,1872

Villaggio Ferrania Film, Cairo Montenotte, Savona,1930 (foto G. Lotti) 

Case operaie Michelin, Torino,1938 

Manifatture Cotoniere Meridionali, Napoli, 1938

Villaggio Breda, Torre Gaia, Roma,1939-48 

Villaggio impiegati Saint Gobain, Pisa, 953-58

Quartiere Fiat Mirafiori, via Negarville,Torino,1961 

Soc. coop. STAP, Torino,1903-07

Soc. coop. Umanitaria, primo intervento,Milano,1905-1906

Soc. coop. L’Economica, Genova,1905

Soc. coop. Astrea, Roma,1947-49

Soc. coop. Promozione Lavoro, quartiere Fossolo,Bologna,1968-70

Rione Iacp, D’Azeglio,Barra,Napoli,1945-50

Case Incis , via Negroli, Milano,1951-55

Quartiere Italsider, Genova Prà,1960

Rione Cep Traiano, Napoli,1959-72

Quartiere Italsider Paolo VI, Taranto,1967-69

Quartiere Gescal , Sesto S. Giovanni,1972-78

Quartiere Iacp, Laurentino 38 , Roma, 1976-84

Cassa per il Mezzogiorno, Le Vele,Secondigliano,Napoli,1968-80

Case convenzionate Iacp, Aurora, Udine, 1976-79